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Scrittore Yannis Mitsopoulos
Sette singolari racconti
 di delitto e mistero


Contatti  yanmilos@gmail.com





_____Traduzione dal greco di Antonis Theocharis
                                                             Correzione di bozze Kyriakos Mantouvalos



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La casa degli oleandri
                              -Bevi questo, ti passerà- gli disse, lasciandolo sul comodino.

            Alle dieci era nell’ufficio del Saraceno. Lui la spinse gentilmente verso di sé per aiutarla a sedersi, e poi si sistemò alla scrivania di fronte a lei. Mentre cercava nei cassetti il dossier, lei colse l’occasione per lanciargli delle occhiate furtive ed esaminarlo nei particolari. Le piaceva pensare che si ergesse tra loro una parete di vetro, una sorta di ‘‘specchio magico’’, che le permetteva di vedere chi fosse la persona a cui aveva pensato in tutti quegli anni, mentre lui non poteva sapere e nemmeno immaginare nulla di lei. Un poliziotto, ma guarda te!

            -Signora Patrikios - la interruppe lui...

            -Gilda, La prego.

            -Signora Gilda - disse lui, all’inizio sorridente e poi con aria seria - sua sorella, come le ho detto e come lei sa, è deceduta improvvisamente ed è stata trovata morta dal suo convivente. Così, in conformità alla legge, è stata ordinata l’autopsia. Il medico legale non ha potuto stabilire le cause del decesso, nemmeno  in base agli esami tossicologici, quindi il referto è stato dato alla magistratura. Non essendo emerso nulla dagli esami, il caso è stato archiviato...

            -Ma non si è trattato di un infarto? - lo interruppe la signora Gilda.  - Almeno così mi ha detto mio marito, che è medico.

            -Sì, un infarto - disse il Saraceno guardandola negli occhi - ma non è chiaro il motivo che l’avrebbe provocato. Questo non è tanto di mia competenza, disse alzandosi dalla sedia, ma il suo compagno con il quale ha convissuto per anni, è venuto da me dopo il funerale, sembrava preoccupato e dubbioso riguardo alla morte di sua sorella e così ho dovuto riaprire il caso.

            -Ma perchè, ci sono nuovi elementi? - gli chiese.

            -Sì, certo... ci ha parlato a proposito dei suoi diritti e di quelli di sua figlia delle promesse della defunta riguardo all’eredità, ma poi è risultata lei la legittima erede, per quanto riguarda la casa ed il resto... perciò... disse il Saraceno in maniera allusiva e facendo roteare la matita.

            -Non capisco, e con ciò? Gli rispose. Sospetta di me perché sono l’erede legittima di mia sorella? Elli non era sposata e questo signore ha la sua pensione, no? Cosa vuole che le dica...

            -Hm.., no signora Gilda non ho detto che sospetto di lei. Come ha potuto pensarlo? Ma ecco, ci ha mostato questa foto e...

            Il Saraceno prese dal dossier una fotografia delle dimensioni di un pacchetto di sigarette, e la girò verso di lei come per coglierla di sorpresa. Era un po’ vecchia, ingiallita e color seppia come tutte le vecchie foto. La tenne ferma davanti al suo viso , indicando qualcosa con la punta della matita...

            -Riconosce qui sua sorella?- le chiese.

            -Si certo, è Elli quando era molto piu’ giovane, naturalmente...

            -...E questo che la tiene sottobraccio chi è?

            La signora Gilda si sentì svenire! La borsa le scivolò dalle mani e il contenuto si rovesciò sul pavimento.

            -E’ suo marito signora Gilda? chiese in modo insistente il Saraceno, mentre si chinava per vedere se stava indicando la persona giusta. I suoi capelli quasi le sfioravano il viso.

            -Si è lui...ma non è possibile - balbettò la signora Gilda, raccogliendo la borsa e gli oggetti sotto le sue gambe, cercando in qualche modo di nascondersi alla sua vista.

            -Una foto non significa assolutamente nulla- gli disse con impeto, per giustificarsi. Cercava il suo fazzoletto, piena di vergogna perché gli occhi le si erano subito riempiti di lacrime. Gli prese la foto dalle mani e la voltò. Dietro c’era scritto “Isola di Egina, 2/6/1950”. La posò sulla scrivania e cercò di ricordare. Non riusciva a tornarle nulla in mente... Lui prese dal cassetto una scatola di fazzoletti e gliela porse. Lei ne prese due o tre, e si asciugò delicatamente le lacrime, dicendo:

-Penso che la persona che vi ha dato questa foto, voglia soltanto ferirmi -  disse piano.

-Lui pensa solo ai suoi interessi, ma io che interesse potrei avere, signora Gilda? - chiese il Saraceno.

-Ah, Lei... lasciamo stare - disse guardando di traverso le sue ciocche

-Vuole un po’ d’acqua? - chiese all’improvviso porgendole un bicchiere.

-Ha intenzione di tormentarmi ancora per molto?

-Non per molto signora Gilda - disse il Saraceno cercando nel dossier. - Mi dica però, sapeva che la mattina del decesso sua sorella si era vista con suo marito?

-Non lo sapevo signore.

-Non avrebbe dovuto saperlo?

-Perché avrei dovuto? Era il suo medico, e la visitava qualche volta, quando stava male. Si fidava solo di lui, avendone viste molte, come infermiera.


-Si certo, perché avrebbe dovuto! – chiese ironicamente il Saraceno. - Ma perché è sua sorella, signora mia! - le disse bruscamente. Sua sorella chiamò prima una vicina, e fu questa poi a chiamare il dottore. Dal momento che era successo qualcosa all’improvviso a sua sorella e lui andava a visitarla non le ha detto: “Vado da tua sorella perchè non si sente bene”?- Non vivete forse insieme?

-Ma scusi, perchè non lo chiede a lui? Che importanza ha se sapevo dove stava mio marito? Pensa che lui mi dica dove vada, ogni volta che visita un paziente?

Mentre lei parlava, il Saraceno prese di nuovo la fotografia tra le dita e gliel’agitò davanti, come se volesse dirle qualcosa e lei glielo impedisse. Infine disse...

-Glielo dico io, perché pare che lei non si ricordi. Questa fotografia è stata scattata durante una gita del personale dell’ospedale all’isola di Egina, signora Gilda... Lei c’era?

-No - disse lei con certezza - Ma nemmeno lui ci andò. Ora che mi ricordo, mi pare che mi abbia detto proprio così...

-Davvero? Allora chi è questo? - chiese il Saraceno battendo il dito sulla foto - Mi dispiace essere io a dirlo, ma ho motivo di ritenere che suo marito abbia avuto una relazione con sua sorella, ed anche per lungo tempo.

            Questa volta si girò a guardarlo, non più con sorpresa, perchè il primo colpo era passato ormai, ma con quell’espressione che doveva aver avuto al ballo del Conservatorio, quando l’aveva visto per la prima volta. Desiderava aggrapparsi a lui, avvilupparlo, avvolgerglisi attorno e chiedergli di ballare  al ritmo di “Se potessi venire per poco’’ e del “Tango notturno”[1], spiegargli che era meglio che le cose fossero andate così, adesso che l’aveva ritrovato, perchè adesso era libera di diventare sua, perchè l’aveva aspettato per tutta una vita. Del resto lo diceva anche il testo della canzone: “e a stringermi forte, tra le tue braccia’’. Aveva così  tante cose da dirgli! Per questo era andata da lui. Ma c’era quello schermo che li separava, che faceva sì che lei sapesse e lui no. Era così, no? Ma no! Questa volta era  lui a conoscere la verità. Lo capì subito,  quando tirò fuori dalla borsa un pacco di lettere legate con un cordone, e le gettò sulla scrivania.

            -Ecco le prove, le disse. Lettere d’amore tra suo marito e sua sorella.

            -Vuol dire che Elli è stata uccisa?

            -Voglio dire che ci sono le prove di una doppia vita di sua sorella, di cui lei era all’oscuro.

            Il Saraceno la osservò mentre si agitava nervosamente sulla sedia, rivelando tutto il suo disagio. Con un gesto rassicurante tentò di ammorbidire il suo atteggiamento.

            -Certamente lei non ha nessuna responsabilità in tutto ciò, ma è capitato che La incontrassi per prima, ieri alla casa perciò...

            - E’ proprio questo che voglio dire, signor Thanos...

            -Come sa che mi chiamano Thanos - le chiese di nuovo, questa volta con un sorriso.

            -Eh... - farfugliò. Come spiegargli? ...Ha detto che è di Corfù e poiché mi occupo di musica,... ma d’altra parte “Saraceno” non è un cognome di Corfù - cambiò abilmente argomento la signora Gilda.

            - Discendo da una famiglia di pirati Saraceni che circondavano l’isola e saccheggiavano le navi - le disse con orgoglio, dimenticando il loro discorso.

            -Ma davvero?

            -Sì... alla fine la famiglia si stabilì a Cassiopi. Ho ancora la spada saracena del mio bisnonno, appesa sul camino della casa di Corfù - le disse fiero, perché tutto ciò era per lui motivo di orgoglio.

            -Allora, da bravo corfiota, le piacerà anche la musica, disse la signora Gilda portando la discussione là dove voleva.

            -Ah... la musica è tutto per me - disse lui con il tipico accento dell’Eptaneso. Quando lasciai Corfù, volevo diventare maestro di musica. Arrivato ad Atene, sono andato di conservatorio in conservatorio... ma vede …. le necessità... come può uno vivere di sola musica?

            -Allora forse ci siamo incontrati là... signor Thanos!

Lui non le prestò attenzione... sembrava concentrato sui pensieri che l’avevano portato alla discussione. Pensava al passato. E continuò...

            -Un cugino mi convinse ad arruolarmi nell’Arma, le parlo del ’38 - disse il Saraceno alzando in aria la mano, per accennare al tempo passato. - Per la precisione, nel  ’38, quando  Sougioul… Tutti questi anni rubati dal lavoro - continuò senza darle retta. Né casa, né famiglia, né figli... non può immaginare cos’hanno visto i miei occhi qui dentro!..

            Lei ora sapeva quello che voleva e si alzò.

            -Se l’interrogatorio è finito posso andare ora? – disse - e lui sembrò risvegliarsi.

            -Ma quale interrogatorio, è stata solamente una chiacchierata. Ha visto che abbiamo anche qualcosa in comune, l’amore per la musica - le disse, prendendola sottobraccio e accompagnandola alla porta.

            Allora aveva sentito le sue parole, pensò, scendendo le scale del commissariato. In quanto poliziotto, naturalmente, deve essere perspicace. Non aveva molta simpatia per i poliziotti. Questo le rovinava il sogno, la figura ideale che si era creata. Tuttavia, questo musicista mancato, l’ amante invisibile di tutti quegli anni, con quella rara bellezza esotica, araba stando a quanto le aveva detto, una bellezza particolare, era venuto a sconvolgerle l’esistenza nel momento in cui tutto  intorno a lei stava cambiando.

            Ciò che ora le premeva però, era quello che aveva saputo da lui. Quello che aveva scoperto con la morte improvvisa di Elli. Dentro di lei sentiva il sangue ribollire. Allora per questo Elli le aveva rifilato Petros tramite sua zia? Per averlo vicino a sé? O si erano messi insieme in seguito? Ma forse il “libro sbagliato” era arrivato anch’esso nelle mani del Saraceno, tramite l’amico ingegnere di Elli? Chissà, forse era venuto a sapere anche tutto il resto, e cioè che era stato proprio a causa di Elli che aveva sposato il medico... oh, mio Dio, che vergogna, che disastro! Tutto intorno a lei crollava, alcune cose solo in parte, come il signor “se potessi venire per poco” – mamma mia, non in questo modo, disse tra sé- ed altre del tutto, come il suo matrimonio. Prima di crollare anche lei sul marciapiede, fermò un taxi e ci salì.



-A Vrilissia, disse al tassista, e tirò fuori dalla borsa il suo specchietto. Si guardò e si aggiustò i  capelli, grigi e ben pettinati.

 Sei proprio una stupida!- disse, facendo un gesto di stizza. L’autista le lanciò uno sguardo incuriosito dallo specchietto retrovisore.

            Non riusciva a perdonarsi il fatto di non aver letto per intero il diario, quel giorno, soltanto perché l’acqua stava traboccando dalle aiuole degli oleandri. Avrebbe almeno potuto metterlo da parte e portarlo con sé per leggerlo dopo. Era stata presa dalla furia, dal desiderio di vendetta, solo così si poteva spiegare. Ma ora... ah, ora avrebbe cercato dappertutto! Avrebbe messo sottosopra la casa... Le foto, la libreria, i cassetti, gli armadi, avrebbe cercato tracce della vita di sua sorella perfino sotto i tappeti.

            -Ma guarda un po’, una doppia vita per lei , e per me, una vita a metà.

            -Si sente bene signora?... - chiese il tassista, guardandola di nuovo attraverso il suo specchietto.



***






[1] titolo di due canzoni, famose degli anni ‘30 scritte dal compositore greco Michalis Sougioul
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L' auto rossa
Ketty l’aveva incontrata per strada un giorno, che era rimasta con la gomma a terra. Aveva aperto il cofano posteriore e cercava la ruota di ricambio!
-Ma non è dietro la ruota di riserva di solito?... - gli chiese.
-Di solito è dietro...- le disse sorridendo.
-Ma qui dietro c’è il motore... - obiettò ingenuamente.
-In quest’automobile, il motore sta dietro, la ruota di scorta davanti, nel portabagagli - spiegò.
Dentro ribolliva di desiderio. Ma non per Ketty! Per l’automobile che aveva davanti agli occhi, una di quelle carissime automobili sportive, che di solito hanno solo i cantanti e i calciatori. La maschera si abbassava fino a quasi toccare l’asfalto, in un sorriso largo e serrato. La sua linea, senza inutili dettagli, risaliva fino al parabrezza anteriore. I fari, posizionati con scultorea simmetria , ben si adattavano al suo stile aerodinamico. Il suo profilo si alzava leggermente, per fare spazio ai due passeggeri, e poi si abbassava di nuovo, assumendo la forma delle ali di un aereo che si alzavano e si abbassavano, a seconda della velocità. Una favola! Un’eccitante meccanismo di velocità. Lui le cambiò la gomma. Lei fece il resto. Vedendo che si era sporcato, gli disse: - Vuoi venire da me a lavarti? Abito qui vicino, a Glyfada.
Lui ci andò. Rimase impressionato dalla sua casa. Lo trattenne, fino a che fece buio. Le piaceva il modo in cui lui parlava di automobili. Soprattutto di quelle rosse. E pensò che, essendo rossa anche la sua automobile, lui si riferisse a lei. Era abbastanza tardi, quando gli disse:
-Adesso devo andare al lavoro...  canto in un locale notturno. Ti va se ti lascio l’automobile e vieni a prendermi verso le quattro di mattina?                      
Questo poi davvero no, non gli era mai successo, ma l’idea lo mise di buon umore a tal punto che gli venne da accennare un passo di zeibekiko[1].
-... del resto mi serve un autista – aggiunse, gettandogli le chiavi,
Nassos le prese e le strinse nel palmo della mano guardandola negli occhi. Era molto attraente! Elegante, con una linea armoniosa e un viso che gli ricordava quello di una star italiana. Una star italiana? Un pensiero lo attraversò e gli cambio l’umore. Ma poi si riprese e le disse...
-Va bene.
Alle quattro del mattino, si trovava fuori dal locale notturno, e l’aspettava. Lei uscì correndo ed entrò in macchina.
-Andiamo in spiaggia, gli disse. Ho bisogno d’aria fresca.
In una corsa forsennata si riversò sulla solita strada. Ketty aveva il finestrino  aperto e il vento le spingeva all’indietro i capelli, scoprendo il suo volto perfetto. Lei non lo guardava, non aveva visto nemmeno il suo giubbotto con la scritta  C’è solo un rosso”. E come avrebbe potuto, dato che era ubriaca! E molto anche. Sembrava si fosse addormentata, nonostante l’aria fresca. Lui rallentò e si fermò in una discesa vicino al mare, così vicino che si sentiva il rumore delle onde.
 Lasciò il motore acceso, prese dai sedili posteriori il suo zaino ed uscì dalla macchina. Aprì lo zaino e ne tirò fuori due tubi di plastica. Mise le estremità di ciascuno di essi nei due tubi di scappamento. Le altre due estremità le infilò nei due finestrini laterali, tappando poi con il suo giubbotto e con la giacca di lei l’apertura necessaria al passaggio dei tubi. Prese  la sua borsa e la incastrò sull’acceleratore. L’auto iniziò a ruggire da ferma. Lui chiuse le portiere, piano per non svegliarla. Le avvolse con una cinghia e la strinse quanto più poté perché che le portiere non potessero essere aperte dall’interno.
La lasciò così, a respirare i gas del tubo di scappamento dell’auto, finché non si spensero entrambe.
-Una star italiana?... – pensò - Non era italiana ..., né lei né la macchina! – mormorò, e andò via.

***


[1] Danza popolare greca
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L' ispirazione

Di lì a poco il sole sarebbe tramontato. Cercò le sue sigarette e le trovò in cucina. Si sedette, ne accese una, prese la bottiglia di vino e se ne versò un bicchiere. Ne bevve diversi, uno dopo l’altro... Era solo in casa. Pensò a tutto quello che aveva da fare..., un mucchio di lavoro. Tra pochi giorni ci sarebbe stata la festa di “Ai-Iannis”, e l’ “Incontro”. Più di dieci artisti, amici e conoscenti suoi e di Maria, avrebbero mandato le loro opere, che sarebbero state esposte nell’atrio del faro tra le rocce. Sarebbe venuta molta gente, giornalisti e critici, anche stranieri. Questa volta avevano dato l’incarico dell’organizzazione ad un’agenzia. Avrebbero addobbato con luci il giardino, avrebbero servito da bere e da mangiare, ed avevano pensato infine di invitare una banda tradizionale a suonare canzoni dell’isola per far ballare gli intervenuti. Il vero problema non era questo... era che questa volta aveva annunciato che avrebbe presentato una sua opera. Tutti i suoi amici aspettavano con curiosità ed impazienza, perché se ne parlava da anni ormai. Ogni anno ci rinunciava. Ora era arrivato il momento di presentare qualcosa. Sentì una strana lucidità. In quel momento la sua mente si era sbloccata di nuovo, un effetto che solo la presenza di Maria riusciva a provocare. Una forza creativa si impossessò di lui, facendogli immediatamente elaborare un piano. Si sentiva ispirato. Lo sentiva nelle vene. Nelle dita che si muovevano impazienti, come se volessero plasmare qualcosa.

Si mise al telefono e avvisò tutti i collaboratori di non venire al lavoro per la settimana seguente. Disse loro che si voleva preparare per il convegno. Quandò finì le telefonate e fu sicuro che nei giorni seguenti sarebbe stato da solo, uscì e chiuse la porta del cancello d’ingresso al faro. Appese un cartello che aveva per queste occasioni con su scritto “La bottega è chiusa".
                        Tornò in casa, andò in bagno e trovò il corpo senza vita di Maria che  affiorava  nell’acqua della vasca. Si chinò e passando le sue braccia sotto il corpo nudo di lei la sollevò con prudenza. Le dita della sua mano erano rimaste ritorte, irrigidite in quell’ultimo gesto istintivo che aveva fatto per salvarsi. La spostò con cura nella camera da letto e la distese sul letto. Le asciugò il viso con l’angolo del lenzuolo e con le dita le sistemò i capelli . Si allontanò e la osservò, distesa nuda sul letto, allo stesso modo in cui l’artista osserva il suo quadro per coglierne i dettagli. La voce di Phil Collins echeggiava ancora dall’atelier, ora cantava “too many people, too many problems”[1]

Dallo studio prese l’alto carrello che usava per trasportare la creta. Vi posò Maria per portarla al laboratorio di ceramica. La distese sul banco, liberato dalle ceramiche incomplete. Le girò la testa verso l’alto e le aprì la bocca. Riportò la mano nella posizione che aveva prima di esalare l’ultimo respiro, con le dita aperte nell’agonia. Voleva che avesse una posizione simile a quella della moglie del capitano, nel momento in cui insieme a suo padre l’aveva vista affogare. Prese alcune lenzuola dalla camera da letto, ne tagliò delle strisce, le bagnò e con esse cominciò ad avvolgere strettamente e con cura  il cadavere, come se fosse una mummia. Lasciò scoperta soltanto la testa perché voleva vedere l’espressione del viso. Prese quindi alcuni sacchetti di creta, che tenevano ammucchiati e coperti con pezze bagnate affinché non seccassero, e ne versò il contenuto in una specie di tritacarne usato per ammorbidire la creta. Prese la creta così ammorbidita e ne fece una pasta che poi stese in sfoglie sottili con l’aiuto di un matterello da cucina.

Dopo averne fatto un certo numero, le avvolse in rotoli che portò vicino al corpo di sua moglie. Distese con attenzione i primi rotoli sotto di lei. Quindi ne allargò altri sul petto, sul ventre, sui glutei. Con attenzione, premette attorno al corpo la creta ancora morbida che vi aderì facilmente, grazie alle strisce del tessuto bagnato.           
Unì le sfoglie di sopra con quelle che aveva steso sotto il corpo finché  quest’ultimo fu perfettamente avvolto e coperto dalla creta. Ci volle un pò di tempo. Cercò di unire bene i punti di congiunzione, in modo da far sembrare il corpo un unico blocco di creta. Usò a tal fine un attrezzo di legno, una specie di spatola che usava per lo più quando lavorava al tornio. Con questo e con un panno bagnato, coprì le impronte e rese liscia  la superficie.

Cominciò quindi a mettere all’opera il suo talento di scultore. Mise particolare cura nei dettagli , nel viso e nei capelli. Impiegò tutta la sua abilità e attraverso la creta riuscì veramente a ridarle vita. Con la creta riempì anche la bocca aperta, imprimendo su di essa la stessa irreale espressione di terrore.
Impiegò tutta la notte, ma all’alba finalmente aveva finito. Aveva fatto una vera statua di creta.  La statua di sua moglie. Ma nello stesso tempo l’aveva fatta sparire. Tuttavia  lo attendeva  ancora molto lavoro. Occorreva una giornata intera perché la creta seccasse. Fece scorrere sulle ruote con attenzione il banco da lavoro, portando il corpo di creta in un’ assolata veranda fuori dal laboratorio.

Aveva molto tempo a sua disposizione per mettere a punto i particolari del suo piano. Fece alcune telefonate ed informò alcuni amici che c’erano state delle liti con Maria  e lei, come al solito, era andata via di casa ed era partita per l’Italia. Poiché però – pensò - nessuno l’aveva vista partire con la nave del mattino, disse che erano venuti dei suoi amici dall’Italia con uno yacht e probabilmente era partita con loro. Chiamò anche l’agenzia che organizzava il convegno e li informò che sua moglie non sarebbe stata presente alla manifestazione perché era dovuta partire. Si sarebbe però occupato lui di tutto. Disse inoltre che avrebbe esposto un’opera anche lui e che l’aggiungessero al catalogo.

-Qual è il titolo dell’opera signor Takis? – gli chiese la responsabile delle pubbliche relazioni.

            Non ci aveva pensato. Cosa dire? Non gli veniva in mente niente. All’improvviso però lo colpì di nuovo l’ispirazione...

-“Santa Maria”, le disse.

-Ah, com’è gentile a dedicarla a sua moglie - disse lei, con il suo fare professionale.



[1] “Troppe persone, troppi problemi”

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Il Codice di Epidauro

Guarda il video da Epidauro



Nello stesso momento, ad alcuni chilometri di distanza, verso il mare, vicino all’antica città di Epidauro e dietro l’ultima casa del paese, nel versante sudovest, dentro un uliveto, qualcosa tradiva un grande e ben custodito segreto. Forse era il canto dell’uccello notturno o forse solo il profumo della terra d’Argolide. Forse erano le pietre sparse, grandi e squadrate, ed un paio di colonne di marmo che spuntavano da terra, e una parete di pietra, formata dai ruderi di un edificio non meglio identificato....  tutto ciò e qualcos’altro ancora. Una serie di pietre raccolte e sistemate con cura l’una accanto all’altra in modo da formare un cerchio perfetto, come l’orchestra di un antico teatro. Non avrebbero avuto nulla di particolare se non ci fossero state, posizionate a terra, in circolo e ad una distanza di  tre metri circa l’una dall’altra, delle fiaccole accese a disegnare il perimetro del cerchio nel buio. Nel centro del cerchio c’era l’altare rettangolare, la cui pietra grigia a chiazze bianche e nere rivelava che si trovava lì da secoli. Su di esso un materasso formato da rami e fiori di verbena che emanavano un profumo inebriante, sul quale era stesa, immobile e con il respiro sospeso, come morta, una ragazza giovane e bella. Un’adolescente dai  lunghi capelli neri, che ricadendo sulle spalle incorniciavano il suo viso simile al marmo. Portava una corona formata da ramoscelli con foglie d’ulivo. Una veste bianca trasparente lasciava intravedere, alla luce delle fiamme, il suo corpo nudo. Inginocchiata accanto a lei, una ragazza più grande, anch’essa con una veste bianca e con il capo coperto da un velo dello stesso colore, le sussurrava parole incomprensibili. Avrebbero provocato nella “dormiente” un sonno ancora più profondo. A destra e a sinistra, c’erano due colonne a forma di treppiede fatte da rami tagliati e legati alla buona, sormontate da due bacinelle metalliche. In una bruciava una fiamma e nell’altra, emanando un odore inebriante, bruciavano timo, origano e incenso. Il dolce suono di un flauto dava una strana suggestione al paesaggio. Ad accompagnarlo, un mormorio che proveniva da un canto simile ad una salmodia,  il cui sottofondo era un continuo “mmmmmm....”  Dall’uliveto, si trascinarono verso il cerchio di pietra alcune ombre. Erano tutti ragazzi e ragazze che portavano lunghe vesti bianche e tenevano tra le mani delle coppe di ceramica piene di frutta. Mentre alcuni seguivano il ritmo del profondo e ripetitivo “mmmmmm”... , altri,  avanzando quasi a passo di danza, cantavano...
Amore invincibile tu che vegli
sulle guance della giovane, tu che catturi
Perfino l’uomo ricco, ed entri nelle case,
e passi sul mare ed il mare attraversi !
E nemmeno gli immortali possono sfuggire a te,
lascia puro ed intoccato questo corpo,
dalle tue tentazioni ed i piaceri che offri...

Si trattava di un rituale improvvisato, per l’iniziazione di una sacerdotessa di Asclepio. Negli spazi del santuario di Asclepio ad Epidauro, nell’antichità, erano proibiti la morte e la nascita. Le sacerdotesse dovevano essere pure ed incontaminate per poter purificare a loro volta i pazienti. Con l’aiuto di questo rituale, pensavano che durante l’ipnosi, l’anima si separasse dal corpo ed acquistasse poteri divinatori e profetici. L’ipnotizzato va in estasi ed incontra la visione del dio della Medicina che lo guarisce.
Questo coro prese posto tutt’intorno al cerchio di pietra. Li seguì spuntando dall’oscurità, un altro gruppo guidato da un capo. Si distingueva perché aveva la barba, portava una veste color azzurro profondo, legata alla vita con una cinta di pelle ed una fibbia d’oro e aveva la testa coperta da un largo cappuccio dello stesso colore. Si appoggiava ad un lungo bastone, con un serpente scolpito sulla parte superiore. Aveva il ruolo di sacerdote e lo seguivano tre sacerdotesse. La prima teneva intorno al collo un serpente vivo, la seconda un gallo e la terza  un disco rotondo, con dentro un coltello ed una coppa di vino bianco ed una di vino rosso. Seguivano poi tre giovani anch’essi coperti da larghi cappucci, che sorreggevano coppe di ceramica con fuoco, incenso e oli aromatici. Tenevano legati con la corda una capra ed un cane.
Il sacerdote si avvicinò alla ragazza ipnotizzata e batté quattro volte il bastone a terra. Sussurrava parole incomprensibili, quasi una salmodia, con una voce profonda e bassa... Si rivolgeva al fuoco, l’aria, l’acqua e la terra, i quattro elementi che devono combinarsi con i quattro elementi del corpo, il sangue, il flemma, la bile gialla e la bile nera. Questi avrebbero portato salute e prosperità nelle quattro fasi della vita, l’infanzia, la giovinezza, la maturità e la vecchiaia, e durante le quattro stagioni dell’anno. Ogni tanto si fermava per dire... “Grazia Divina”, ed il coro lo ripeteva, come un salmo.
Ad un certo punto, depose il bastone e protese le braccia verso una sacerdotessa. Questa si tolse il serpente dal collo e lo posò nelle sue mani. Lui si girò e mise il serpente sul corpo ipnotizzato e quasi completamente nudo della ragazza. Un leggero venticello si alzò e mosse le pieghe della sua veste quasi trasparente. Il serpente sembrava anch’esso ipnotizzato ed indolente ma protese lentamente la sua lingua biforcuta verso il collo della ragazza.
Il sacerdote allora, prese il coltello dal disco che gli porgeva uno dei suoi seguaci e con una mossa brusca tagliò la testa al gallo che l’altro teneva. Il gallo si agitò per un po’ mentre uno dei seguaci raccoglieva in una coppa il sangue che sgorgava dal collo tagliato. Poi sparse con dei movimenti circolari il sangue sulla terra, perché si diceva che Asclepio emanasse la guarigione dalla terra, mentre il coro pronunciava ripetutamente il nome della sacerdotessa... “oh Elettra, oh Elettra”... Il gallo secondo il rito simboleggia la vita nuova. Il sacrificio del gallo, che annuncia il nuovo giorno, simboleggia la nuova vita della persona. Il coro smise di pronunciare il nome della ragazza allorché il sacerdote prese il serpente e lo appese di nuovo al collo della sacerdotessa. Poi versò l’olio aromatico sul suo corpo immobile, facendo aderire il tessuto trasparente in maniera da mettere ancor più in evidenza le sue linee. Lei sembrò emettere un sospiro. Una delle tre sacerdotesse del seguito alzò leggermente la testa.  Il sacerdote prese dal disco la coppa con il vino rosso, che rappresenta il sangue del gallo, e gliene fece bere quattro sorsi. Fece quindi la stessa cosa con il vino bianco, che simboleggia il veleno del serpente, il quale in medicina ha poteri terapeutici, pur potendo procurare la morte. Il serpente è ancora oggi il simbolo della medicina. Se il serpente accetta la persona sulla quale viene appoggiato dai sacerdoti, è il segnale dell’accettazione divina della iniziazione della nuova sacerdotessa. Se però il serpente morde la ragazza, allora questa viene curata come una comune mortale, non diviene più una sacerdotessa e forse può andare incontro alla morte. I saggi, nella lingua degli antichi misteri, sono definiti “ofis” perché il serpente simboleggia il pensiero e la saggezza, ma anche perché anch’esso cade in ipnosi quando entra in letargo durante l’inverno. Ora il rito dionisiaco sembrava concluso ed il coro alzò le mani in alto gridando il nome del sacerdote in suo onore...
“Oh salve Oreste ofis... ofis Oreste”!
Poi, tutti scomparvero d’un tratto nel buio della notte senza luna, accompagnati dal suono di un flauto ed i deboli fuochi delle fiaccole si spensero sotto il leggero vento dell’Argolide.
Nello stesso momento, nel teatro di Epidauro, l’applauso degli spettatori annunciava la fine della recita. Agamennone aveva finito il suo lavoro ed era impaziente di tornare dalla moglie e dai suoi figli.

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La sirena

Davanti a lei vedeva l’alba e dietro le luci della città fortificata di Monenvassia. Diresse la rotta verso il punto in cui sorgeva la luce del sole. Al largo il vento rinfrescò l’aria e la prua della “Sirena” iniziò ad andare su e giù, al ritmo delle onde che incontrava. Allora sentì di nuovo le grida di Jimmy. Fissò il timone sulla rotta e andò a prua. Guardò sotto il parapetto e lo vide, tutto bagnato, andare su e giù come la barca. Quando la “Sirena” stava in alto sull’onda prendeva un respiro e quando scendeva si immergeva insieme alla barca. Poi di nuovo un respiro e ancora dentro finché non usciva con l’onda successiva.

- Ti friggerò il cervello come una frittata, come diciamo a Naxos, mi senti?...

-Annegherò... fammi scendere...

Jimmy non faceva in tempo a finire la frase, perché doveva prendere il respiro per il tuffo successivo.

-Perché hai tentato di annegarmi, ubriacone?... Che ti ho fatto? – gli gridava Thalia dal parapetto.

-Non ce l’ho con te, sto cercando la sirena che mi ha preso Buku... – e blop! nel mare.

-Ma quale Buku, stupido e quale sirena? Dove Vivì, ai tempi di Alessandro Magno?

-La mia Buku, la bambina che ho perso in mare... Ecco, mi ha mandato un messaggio... il cellulare è caduto in mare ora... – blop!

-Ma che dici, pazzo? Se si è persa come ha fatto a mandarti un messaggio... e perché ci devo andare di mezzo io? – chiese Thalia, che stava ad osservare il suo martirio, senza mostrare alcuna intenzione di liberarlo.

-Fammi scendere da qui, per grazia di Dio... – e blop! di nuovo dentro.

-Chiedila tu la grazia a Dio. Io ti porterò così, finché non mi dici perché l’hai fatto. Hai scelto male. Sai cosa dicono di noi? “Se vuoi un compagno valoroso, prenditi una donna di Naxos”! Questo ti dico, solo...

-Ma, Thalia, tirami fuori, annegherò... - blop!

-L’hai fatto anche ad altre, quello che volevi fare a me?

-No cara, solo alla ragazza francese, che è andata a fondo per diventare un pesce... - blop!

-Vai al diavolo, tu sei matto da legare... – disse Thalia, e lo lasciò lì dov’era.

            Tornò al timone, prese dalla borsa le sigarette e ne accese una, per riprendersi un po’.

            Era passata più di un’ora da quando avevano lasciato Monenvassia, e il tempo stava migliorando. Il su e giù della Sirena si era fermato, ma erano cessate anche le grida di Jimmy. Fermò il motore e andò a prua per controllare. Lo vide volteggiare, privo di sensi, appeso alla corda.

-È vivo re Alessandro, capitano?... ah, ah... – lo derise dall’alto.

            Non sapeva se fosse vivo o no, se respirasse o se avesse perso i sensi. Andò a poppa, dove era legato un piccolo gommone che la barca trascinava. Sciolse la corda e lo trascinò lungo il lato della barca fino a portarlo a prua, sotto Jimmy. Con due colpi d’accetta tagliò le corde che lo tenevano. Lui cadde sul gommone come un sacco di patate. Portò di nuovo il gommone a poppa, lo legò e riprese il suo viaggio verso est, con il sole ormai alto sull’orizzonte.

            Si girava ogni tanto a controllare il gommone, ma non vedeva nessun movimento. Ora che l’aveva eliminato si sentiva più sicura. Ma non si era calmata del tutto. Non sapeva dove era diretta esattamente e non si vedeva terra all’orizzonte. Scese giù e cercò nelle mappe... Trovò quella che voleva, l’ aprì ed indicò con il dito Monenvassia. Vide che il punto più vicino era Spetses, ma stava a nord. Lei si era diretta verso est. Girò tutto il timone a sinistra, verso il nord indicato dalla bussola e poi accelerò il motore. Voleva farla finita con questa storia prima possibile. Lo avrebbe portato alla capitaneria di porto, e avrebbe raccontato tutta la storia. Vivo o morto, non la interessava... Voleva solo uscire dall’incubo che aveva vissuto la sera prima. Guardò di nuovo il gommone. Non vide nessun movimento, e si tranquillizzò.

            Il sole, salendo in alto, aveva cancellato i colori dell’alba e il giorno cominciava a riscaldarsi. Thalia guardò il suo orologio... Viaggiava da tre ore e in  fondo, all’orizzonte, si vedeva la costa del Peloponneso. Passata l’ansia, ora le era venuta fame. Legò di nuovo il timone e scese sottocoperta. Entrò nello spazio dove c’erano il salone e la cucina della barca. Prese una bottiglia d’acqua e trovò un po’ di pane in un cassetto. Masticando il pane e bevendo qualche sorso d’acqua, si guardò intorno. C’era appeso un ritratto di Bob Marley, uno di Hailé Selassié, una croce copta e molti cd di musica reggae. Camminò verso il fondo e vide la cuccetta di Jimmy. Ai lati c’erano due porte, a destra e a sinistra, che portavano ad altre due cuccette. L’una era stata arredata come una cameretta da bambina, con la tappezzeria rosa a nuvolette azzurre e tante piccole foto di una bimba con i capelli neri. C’erano appesi anche molti disegni fatti con le tempere e le matite a cera. Il letto aveva una coperta con disegni di delfini e sirene e al soffitto erano appesi dei pesci colorati. C’era anche uno zainetto sul  letto e libri di favole sistemati nelle custodie. Aprì incuriosita un armadio e vide che era pieno di vestiti da bambina, stirati e ordinati.

            Tornò nel salone e cominciò a cercare negli scaffali e nelle custodie che c’erano là intorno. Libri di religione, musica, nautica, guide di barca a vela e tra loro un album di fotografie. Lo mise sul tavolo, si sedette sul divano e iniziò a sfogliarlo. Era pieno di foto di Jimmy. Foto di famiglia, della scuola, della vita militare, con ragazze, amici, Vivì... Ma poi le foto diventavano più numerose quando c’era Buku. C’erano anche commenti..., del tipo “...momenti di gioia”, “...Buku va a scuola”, “...la mia bambina”, e altri.

            Chiuse l’album e rimase pensierosa con la mano sulla copertina. Salì di nuovo al timone. Guardò indietro verso Jimmy. Il gommone seguiva, e lui era steso immobile su di esso. Ora Spetses si vedeva chiaramente all’orizzonte. Non ci voleva più di un’ora perché arrivassero al porto. Restò per molto tempo immobile, tenendo il timone della “Sirena” e guardando avanti. Improvvisamente lasciò il timone, andò a prua e sciolse la corda che teneva il gommone con Jimmy.

-Vai a trovare la tua sirena – disse, e lanciò la corda in acqua.

            Restò a guardare mentre il gommone si allontanava.  La barca andava avanti e quello andava alla deriva, allontanandosi sempre di più, fino a scomparire completamente ai suoi occhi. Prese di nuovo in mano il timone e si diresse verso l’isola.

            Arrivando al porto uno spettacolo che la incuriosì. C’erano un centinaio di barche ancorate. Yacht di lusso, barche a vela, moderni motoscafi e barche di ogni dimensione. Alcune erano legati alla banchina ed altre, la maggior parte, in mare, addobbate con bandiere e pieni di gente. C’era anche una nave grigia della marina militare.

-“Che succede qui” – si domandò, spegnendo il motore. Da uno yacht accanto due marinai la guardavano mentre si avvicinava.

-Che succede qui, ragazzi – chiese loro, sporgendosi sul parapetto.

-Stasera bruciamo l’armata dei Turchi – le risposero quelli .

            Li salutò e tornò al timone... “Ah, certo”, disse fra sé, “l’isola di Bubulina”. Rimase di nuovo per un po’ pensierosa... portò la “Sirena” in un punto, tra le altre barche, premette un pulsante e affondò l’ancora. Sentì la catena che scendeva finché non si fermò. Spense il motore e si accese una sigaretta.

            Voleva rilassarsi e mettere in ordine le idee. Dove aveva trovato il coraggio di lasciare quel tizio appeso a prua? Come era riuscita a guidare una barca così grande, facendo solo ciò che aveva visto fare durante i viaggi con la sua compagnia? Era stata mania di vendetta o solo una reazione istintiva di difesa? E cosa aveva guadagnato ad averlo torturato così? Magari erano parole senza senso di uno fuori di testa... ma la cuccetta da bambina dentro la barca? Magari era vero che aveva perso una figlia. Ma a lei cosa le interessava? Che cosa gli aveva fatto lei per cui aveva voluto annegarla? La storia della sirena e Alessandro Magno che gli aveva raccontato la sanno tutti! Ora doveva raccontare alle autorità tutto ciò che era successo, e che facessero loro ciò che volevano. Che cercassero loro Jimmy, da lei abbandonato al largo. Cosa avrebbe detto a questo proposito? Che temeva che l’avrebbe assalita di nuovo e per questo aveva sciolto la corda. Gli avrebbe detto questo e tutto ciò che era successo veramente. Raccolse le sue cose e gesticolando chiamò una barca che venisse  a prenderla.

            Pochi istanti dopo camminava lungo il porto. Era il 12 di settembre. Il porto era pieno di bandiere e di gente per la festa serale. Gli operai stavano facendo gli ultimi preparativi, la gente passeggiava o stava seduta nei bar, per il caffé del mattino, dai megafoni si sentivano canzoni isolane a tutto volume. Si diresse verso la  capitaneria di porto. Salendo alcuni scalini, si fermò a guardare un manifesto. C’era l’immagine di Bubulina e sullo sfondo l’armata turca in fiamme. Guardò negli occhi la capitanessa e dopo aver un po’ riflettuto, con il mento appoggiato sulla mano, disse decisa:

-Brulotto! Il legnaccio andrà a fuoco!

            Senza pensarci due volte, cambiò strada e andò da un benzinaio che era lì sotto. Ordinò  che, dopo due ore, le mandassero con una barca quattro bidoni di combustibile sulla “Sirena”. Pagò e lasciò anche una bella mancia.

            Passeggiò un po’ senza meta tra la gente al porto. Poi prese una barca e si fece riportare sulla “Sirena”. I bidoni di combustibile erano già lì. Sfinita ed eccitata com’era, scese nel salone e si stese sul divano... Ora non voleva né ricordarsi né pensare a ciò che era successo. Semplicemente aveva cambiato piano. E così si addormentò.

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 Il maestro


Al tramonto arrivò a casa del “Maestro”. Non se l’aspettava così. Era una casa di campagna, molto vecchia, con le pareti passate a calce e il tetto di legno con le tegole, che per il peso si era inclinato. Lo trovò che lo aspettava sorridente sulla soglia. Quando lo invitò dentro vide quanto piccola fosse veramente la casa. Aveva una sola stanza, che era insieme soggiorno e camera da letto. Aveva dei mobili di legno molto vecchi, un cassettone di marmo con un televisore posato sopra, un letto metallico, un tavolo di legno con quattro sedie e una lampadina che, appesa a un filo, pendeva dal soffitto. Sui muri, alcune vecchie foto degli avi contadini, un camino e uno specchio, dove c’era scritto “buona giornata”. Intorno al camino, molti libri erano sistemati su delle mensole di legno, appoggiate a dei mattoni. Al lato opposto del camino, c’era una bassa porta di legno che portava in cucina. Anche là c’era un letto accanto al muro, un piccolo tavolino, il frigo, un forno, la cucina a legna e un lavandino in pietra.

            Il “Maestro” lo salutò e gli mostrò la casa.

-Qui faccio la mia “Ascetica” – gli disse sorridendo. – Ora porta le tue cose. Ecco…, ti ho sistemato a dormire qui in cucina, perché io dormo nell’altra stanza.

-Tua moglie non c’è, “Maestro”? - gli chiese Mimis.

-No, mia moglie sta ad Atene; è un’ insegnante di liceo ma ancora non è andata in pensione. Torna nei fine settimana. Io resto qui a prendermi cura dei campi, con le olive e gli animali di mio suocero. È tutto suo. Io no ho niente. Sono un grumo di terra, come dice Kazantzakis – disse ridendo.

            Le serata passò piacevolmente. Gli preparò le costole d’agnello alla brace, gli offrì del buon vino rosso, olive, pomodori, cipolle e una pagnotta fresca. Mimis gli raccontò le sue cose e lo portò in macchina a fargli vedere gli animali che commerciava. A Kourtis fece impressione il serpente africano...

-E’ uno dei serpenti più mortali al mondo –  disse orgoglioso Mimis ancora una volta, mostrando il mamba. – Il suo veleno può uccidere da venti fino a quaranta persone! È molto aggressivo e può drizzarsi fino ad un metro da terra. E’ in grado di raggiungere i venti chilometri all’ora.

-Guarda gli animali uomo, e sappi che anche tu una volta eri così.

            Come sempre, ricominciava con i soliti discorsi. Ma questa volta Mimis voleva metterlo alle strette.

-Dimmi un po’ “Maestro” – gli disse ad un certo punto. – Quando insegnavi alla Scuola, perché non facevi niente quando noi, ragazzi appena tredicenni, ci lamentavamo delle botte, delle umiliazioni e del terrore che ci incutevano?

-Io? – chiese lui sorpreso. - Ma io… vivevo fuori della scuola e quando uscivo di lì non sapevo cosa succedeva là dentro.

-Vuoi farmi credere che non sapevi niente? – disse Mimis sospettoso.

-Ma se lo sapevano tutti! Arrivavamo in classe pieni di lividi, sfiniti dalla fatica e dormivamo sul banco. Molti fuggivano e non ritornavano più, e tu mi dici che non ti eri accorto di quell’ inferno!...

-No, non sapevo che gli allievi più grandi vi picchiassero. Del resto c’era la congiura del silenzio, come la chiamavate, e nessuno veniva a sapere niente. Eh, in fondo era una scuola militare, volevi che non ci fosse qualche atto di prepotenza? Una cosa sono le regole lì, un’altra cosa quelle nella vita!

            Il “Maestro” vide che Mimis non credeva alle sue giustificazioni, ma non aveva nient’altro da dirgli. Dopo essere rimasto per un po’ a guardare il bicchiere con il vino, improvvisamente disse…

-Ascolta Mimis. Ormai sei un uomo fatto… Non stare a pensare a quello che succedeva quando avevi tredici anni… non ti fa onore dire che ti picchiavano. Sai come dice il poeta: “E se non puoi la vita che desideri  cerca almeno questo, per quanto sta in te: non sciuparla”[1].

            Messo alle strette, quando non sapeva che dire , il  “Maestro” buttava là una massima di qualcuno, una citazione, un verso  e se la cavava con un'altra lezione di vita. Dimenticava le sue azioni, la sua vita, i suoi errori, le sue passioni e si districava tra i suoi pensieri, come un serpente. Si ricordava di averglielo detto anche questo, che cioè nella vita “devi saperti districare…” e muoveva la mano come fa il serpente e “non dare un pugno al coltello, perché ti ferirai la mano.” Ebbene sì, era anche lui un vero serpente, disgustoso e pericoloso, che se ti mordeva con il veleno del suo pensiero, non sapevi se ti avrebbe guarito o ti avrebbe ucciso. “Accidenti a me, dov’è quel coltello marocchino, che glielo pianto ora nel cuore e la facciamo finita”, pensò Mimis. “Finora gli ho voluto bene perché gli volevano bene anche gli altri. Ma far finta di niente? No, no, questo non è possibile! Ecco, non sapevo chi uccidere con quel coltello africano, adesso odio lui, a lui vale la pena di aprire il cuore ora, in questo momento, e vediamo se dentro ha sangue oppure olio, come quello che tira fuori dai suoi ulivi. Se funziona in modo umano o è come i motori della nave: dum, dum!”

-Mimis, vuoi ancora un po’ di vino? – chiese il “Maestro”, vedendo che la testa gli ciondolava per il sonno.

-No, è meglio che vado a dormire “Maestro” – rispose Mimis, alzandosi bruscamente.

            Rimise a posto le sedie e raccolse alcuni piatti e bicchieri per portarli in cucina. Cadde sul letto come un sasso, ancora vestito, senza neppure dire buonanotte. Pensava ai serpenti e serpenti vide in sogno. Li calpestava, si avvolgevano alle sue braccia, al suo collo, dappertutto. Avevano occhi lucidi, lingue biforcute e denti taglienti, ma parlavano: pronunciavano parole umane come il pappagallo, sempre le stesse, continuamente… tuttavia non poteva capire cosa dicessero. Improvvisamente, tra di loro apparve Rulla, tenendone alcuni per le mani come una dea egizia. Gli sussurrò piano, come il sibilo di un serpente, le parole che essi dicevano, e finalmente capì.

-Non permettere agli altri di avvelenarti…

            Si svegliò bruscamente, con lo sguardo stravolto per l’incubo… Conosceva queste parole. Gliele aveva dette la sua amante. Si guardò intorno per capire dove fosse. La testa gli doleva dal tanto vino che aveva bevuto. Guardò l’orologio… erano passate le tre. Si alzò pian piano e spinse leggermente la porta che lo divideva dalla camera del maestro. Lo vide dormire, immobile, nel letto.

-Serpente – sussurrò con odio e a labbra strette.

            Si guardò di nuovo intorno, e così com’era, con i calzini, camminando in punta di piedi, uscì in giardino dalla porta della cucina. Andò alla macchina e prese dal sedile posteriore il cesto con il mamba africano. Lo portò in cucina e lo mise davanti alla porta dell’altra camera. Senza far  rumore, spinse il cesto nella camera dove dormiva il maestro. Quindi prese dalla cucina un cucchiaio di legno dal lungo manico e con esso, da lontano, aprì il coperchio del cesto, richiudendo immediatamente la porta.

            Non fu necessario aspettare molto. La neurotossina del serpente provoca paralisi e soffocamento in dieci minuti. Il sistema nervoso non funziona più e il cuore cessa di battere.


[1] Dalla poesia di Kavafis “Per quanto sta in te”

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Un’innocua amicizia


Negli ultimi tempi Tassos era spesso assente, dovendosi recare in America per cercare una soluzione ai suoi problemi economici. Questa volta sarebbe tornato passando per Londra, perché voleva restare lì un giorno per sistemare alcuni suoi conti bancari. Nel tardo pomeriggio, chiamò Leda e le disse che era arrivato a Londra ma, siccome il giorno dopo ci sarebbe stato uno sciopero, non si sarebbe fermato e avrebbe preso il primo volo per Atene.

Aspettando il suo arrivo, Leda che era molto stanca non resistette e dopo aver preso un tranquillante si mise a letto, addormentandosi con il televisore acceso. Non fece caso ad un’ombra che la osservava da sopra un pino che era davanti al loro appartamento in via Diamantidou, a Psichico. Quando Leda si fu addormentata l’uomo sull’albero aprì una scala pieghevole d’alluminio che teneva in spalla. Appoggiò un’estremità su un robusto ramo e l’altra sul parapetto del balcone, a formare un ponte. Con attenzione vi salì e gattonando arrivò sul balcone. Indossava dei morbidi stivaletti di gomma, una tuta nera aderente che lo copriva interamente e un cappuccio nero che lasciava scoperti solo gli occhi. Portava i guanti e sulle spalle aveva uno zaino nero. Non appena fu sul balcone, si avvicinò alla porta scorrevole della camera da letto di Leda che trovò aperta. La fece scorrere lentamente, solo quanto serviva per far passare il suo esile corpo. Poi entrò nella camera da letto dove Leda stava dormendo, con il televisore acceso. La folta moquette attutiva il rumore dei passi del visitatore notturno mentre si avvicinava al moderno mobile con specchio, che Leda usava come toilette. Senza esitare, aprì il secondo cassetto del lato destro, estraendone una scatoletta di legno color corallo, il cui contenuto svuotò con attenzione su un panno di velluto nero che aveva steso sul mobile. Avvolse i bordi e lo mise dentro una tasca dello zaino. Poi mise la mano più in fondo nel cassetto e tirò fuori un sacchetto di pelle di camoscio dal contenuto pesante. Senza aprirlo lo mise nello zaino. Guardò Leda che dormiva profondamente e uscì dal balcone, nella stessa maniera in cui era entrato, salendo sul parapetto e utilizzando la scala che aveva lasciato lì prima.

In quel momento si sentì il motore della Cayenne di Tassos che saliva la Diamantidou e girava a destra per entrare nel garage della casa, sotto il loro appartamento. Lo sconosciuto con la tuta nera si fermò a metà della scala-ponte, tra il balcone e l’alto pino. Cercò di abbassarsi per non dare all’occhio, ma in quel momento l’angolo della scala che posava sul balcone scivolò via e il visitatore notturno si ritrovò nel vuoto. Con la mano guantata si tenne stretto alla scala che era rimasta incastrata su un ramo dell’albero, e così si ritrovò appeso davanti alle luci  della Cayenne che stava entrando sulla rampa del garage.  Tassos vedendo l’ospite inatteso premette il freno, ma quest’ultimo lasciò la presa dalla scala e cadde rotolando sulla rampa in discesa. Tassos allora partì improvvisamente e cercò di colpirlo, spingendolo contro la porta del garage che non si era aperta ancora. L’uomo vestito di nero però, con una mossa felina si sollevò in aria, atterrando  sul cofano dell’auto, e Tassos urtò contro la porta del garage. Poggiando sul parabrezza con i suoi stivaletti di gomma, salì sul tetto dell’auto, e da lì saltò a terra, attraversò la strada, montò su una Honda, mise in moto e partì a tutta velocità.

Tassos lo vide che andava via e fece marcia indietro di corsa, tornando di nuovo sulla strada. La Cayenne nera con un ruggito partì a caccia dello sconosciuto che nel frattempo era sparito in una traversa secondaria. Inseguendolo, i suoi fari lo illuminarono mentre attraversava le vie di Psichicò, verso l’Arsakio[1]. Cercando di coprire la distanza, Tassos pigiò l’acceleratore a tavoletta, correndo come un matto dietro la veloce Honda del visitatore sconosciuto. L’idea che questa volta avrebbe acciuffato l’amante di sua moglie gli faceva mordere le labbra fino a farle sanguinare. Tenendo stretto il volante, non perse di vista nemmeno per un attimo lo sconosciuto che aveva davanti a sé.

Attraverso le strade di Psichicò la Honda raggiunse Filothei, salendo verso la strada che porta all’“Athens College”. Girò a destra e seguì la strada che lungo il muro di cinta della scuola arriva ad un piccolo parco. Al primo incrocio una Mercedes che usciva a grande velocità dalla piccola piazza bloccò la strada alla motocicletta che andò a sbattere con un tonfo contro la portiera di destra. Il passeggero vestito di nero volò in aria e, rimbalzando sul tetto dell’auto, si ritrovò indenne dall’altro lato.

Nel frattempo Tassos si era avvicinato e cominciò rincorrerlo mentre lui cercava di darsela a gambe. Entrò in un piccolo boschetto  a destra della strada e iniziò a salire tra i pini. Tassos lanciò la Cayenne sul pendio ed cominciò a salire anche lui, guidando come un matto per evitare gli alberi. Alla fine  del boschetto, arrivati ad uno slargo Tassos raggiunse lo sconosciuto affiancandolo. Per alcuni istanti, la moto e l’auto corsero alla stessa velocità mentre Tassos cercava di riconoscere nell’oscurità il volto coperto dal cappuccio. Davanti a lui vide però che lo slargo stava finendo e cominciava di nuovo una discesa fitta di alberi. Allora aprì la portiera del guidatore e diede un colpo allo sconosciuto, buttandolo a terra. Frenò la jeep all’ultimo momento, là dove iniziava la discesa, e saltò sullo sconosciuto vestito di nero, dandogli un forte calcio tra le gambe nel momento in cui quello stava rialzandosi. Con un urlo lui si piegò in due ma, quando Tassos gli fu addosso di nuovo, prese da terra un grosso ramo, fece un giro intorno a se stesso per evitarlo e  lo colpì al fianco, facendolo cadere in ginocchio. Prima che Tassos potesse riprendersi gli saltò addosso e i due uomini rotolarono abbracciati lungo il pendio, tra gli alberi. Infine cadendo da una roccia scoscesa, si ritrovarono sdraiati in un fosso tutt’e due.

Lo sconosciuto approfittò del momento per darsela a gambe ma Tassos, ripresosi dalla botta, afferrò per una gamba l’uomo vestito di nero e lo scaraventò a terra. Lottarono per alcuni istanti mentre Tassos cercava di toglierli il cappuccio che gli nascondeva il volto. Ma in quel momento si sentì un suono pesante. L’auto che era ferma sul pendio scosceso, con il muso rivolto in avanti, cominciò a scivolare da sola sui secchi e lucidi aghi di pino, sbattendo sugli alberi che non riuscirono a fermarla, ma la fecero cadere su un lato. Così la pesante jeep, iniziò a capovolgersi scendendo con le luci accese direttamente verso i due uomini che stavano lottando avvinghiati. Poco prima che la pesante auto li travolgesse, si allontanarono in direzioni opposte, l’uno a destra e l’altro a sinistra, scivolando nel fango del fosso. L’auto, con un sordo boato, si rovesciò nel fosso con le ruote in aria, con il motore in fumo. Tassos si trascinò come meglio poteva lontano, verso la strada dall’altra sponda del fosso.

Il serbatoio esplose e l’auto in pochi istanti fu avvolta dalle fiamme che appiccarono il fuoco ai primi alberi del boschetto. Lo sconosciuto vestito di nero si alzò di colpo e sparì, correndo tra le stradine buie di Filothei. Tassos cercò di alzarsi. Ma sentiva che la schiena non gli reggeva. Si inginocchio lì e aspetto che arrivasse qualche aiuto.

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[1] Una nota scuola del quartire di Psichicò